Del celebre ciclo degli “Ominidi“, dello scrittore di Albano Laziale, Aldo Onorati, è uscito ora, per i tipi della Libreria Editrice The Book (Genzano di Roma) il seguito della ormai storica “La sagra degli ominidi”, cioè “L’olocausto degli ominidi”, che, in questa ristampa, giunge così alla quinta edizione, essendo le altre quattro uscite con Armando-Sovera anche in cofanetto con “La sagra” e in volume unico dal titolo “La saga del mondo perduto: gli ominidi”. Bene, di che si tratta? È la continuazione e l’epilogo della “Sagra” uscita in prima edizione nel 1972 e in settima edizione nel 2009. È la descrizione della fine della civiltà contadina, ma – e questo è fondamentale – è la scoperta dell’antropologia culturale dei Castelli Romani (come dice in prefazione a questa ristampa lo studioso Aldo Ponzo). Sui nostri territori hanno scritto decine e decine di autori anche famosi, viaggiatori del Grand Tour, storici e amatori contemporanei, ma tutti hanno visto dal di fuori questo luogo misterioso e affascinante, pieno di storia e di mistero. Onorati, come affermano grandi scrittori quali Domenico Rea, Luigi Volpicelli, Han Hyeong Kon, Solange De Bressieux, Evgenij Solonovich, critici del calibro mondiale d’un Giorgio Bàrberi Squarotti etc., ha scovato sotto la pelle dei Castelli Romani, individuando la religione del popolo contadino, le sue leggende, la mescolanza vivificatrice di cristianesimo e paganesimo (tutte cose che sono servite, nel 1995, a dimostrare che il satanismo delle allora messe nere strombazzate dai giornali, non apparteneva alla nostra antropologia cultura che era bacchica e solare: e questo fece Aldo Onorati, allontanando con coraggio e sapienza ogni sospetto di degenerazione religiosa nei castelli).
“L’olocausto degli ominidi” uscì venti anni dopo “La sagra”. I personaggi sono gli stessi, invecchiati. E’ morto solo il protagonista, Giovenale, uomo di grandi bevute ma di altrettanta cultura. Egli ha lasciato un quaderno di pensieri al suo amico Trubbiano, che lo custodisce come una reliquia. Gli ominidi (così chiamati per la loro genuinità e diversità sociale, quasi ai margini d’un mondo che va industrializzandosi distruggendo la millenaria civiltà contadina) sono rimasti in pochi: Le vigne ubertose di Cancelliera sono invase dal cemento; le ville dilagano al posto dei filari; il vino è messo da parte dalle bevande gassose, le automobili cancellano il silenzio dei paesi sui Colli Albani e Tuscolani. Una civiltà di tanti secoli è all’agonia. Ma Onorati salva le memorie, imparentandosi più con gli scrittori della Roma antica (Petronio, Orazio, Apuleio) che con i contemporanei. La sua è una scrittura che fa pensare più a Rabelais che a Verga, più a Belli che a Trilussa. E’ un mondo finito, ormai mitico, di cui Onorati ci lascia l’atmosfera e la poesia. Dice in una prefazione il grande Domenico Rea in proposito: “Pochissimi sono riusciti a scrivere in questa maniera, tutta a sbalzo, tutta a bassorilievo. C’è qualcosa di petroso, di barbarico, sia nella tematica sia nella resa stilistica degli Ominidi… I Castelli Romani esistono, esistono le loro leggende. Ma a renderli credibili e abitabili, a fermarli vividi nel tempo, sono le parole dello scrittore Onorati”.