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Il PCI Lazio chiede l’assunzione di 20mila infermieri
“E’ sostanziale ed evidente la disgregazione del Sistema Sanitario Nazionale in questa seconda fase della pandemia da COVID-19, se durante la prima fase siamo riusciti ad ottimizzare le risorse in ogni ambito nonostante i tanti contagi ed i tanti morti, in questa attuale fase ci troviamo di fronte ad una cruda realtà.
10 anni di smembramento del SSN hanno procurato un disastro sanitario, colpevoli di aver agevolato il sistema sanitario privato lasciando morire un sistema che collettivamente è sempre stato denominato Assistenza Sanitaria Universale e che rappresenta un sistema di assistenza sanitaria in cui a tutti i residenti di un determinato paese o regione è garantito l’accesso all’assistenza sanitaria”.
Ragiona rivolgendosi ai governanti Sonia Pecorilli, assessore a Sermoneta e membro del Comitato Regionale del PCI Lazio – È generalmente organizzata in modo tale da fornire i servizi sanitari, con l’obiettivo finale di migliorare i risultati sanitari.
L’assistenza sanitaria è la nostra più grande industria, quindi considerata solo una componente finanziaria che è necessariamente socializzata. L’assistenza sanitaria è stata a lungo una delle questioni più contestate politicamente. La lotta sulla riforma sanitaria (contro l’unica Riforma attuata quella del 1978, ndr) è stata forse la questione più acuta della politica nazionale, esemplificata oggi da un totale fallimento.
Purtroppo anche in questo ambito, così come in altri riguardanti la salute, l’obiettivo principale risulta il risparmio sulla prestazione anziché la salute del paziente trascurando la possibilità di disporre di un servizio professionale, corretto e legale.
Le figure che ruotano intorno all’assistenza sono molteplici ma non per questo degni di essere valorizzate. Parliamo di figure che toccano aspetti fondamentali nella cura di un paziente quali la prevenzione, l’educazione, la riabilitazione e la palliazione, seguendo il nucleo familiare e diventando, così, un punto di riferimento.
Con il passare del tempo il diffuso malcostume ha depauperato e snaturato la figura del personale sanitario creando una (falsa) credenza circa le reali competenze e il correlato riconoscimento economico. Il riconoscimento economico diventa così un ostacolo enorme proprio perché non ufficialmente riconosciuto, ne da parte delle istituzioni ne da parte dei fruitori.
Tutta questa premessa serve a dire che oggi non servono nuove leggi e nuove programmazioni: tutte le soluzioni per la Fase 2 di COVID-19 sono nel Patto per la Salute 2019-2021, approvato in Stato Regioni a fine 2019 e che per la pandemia non ha fatto ancora in tempo a essere del tutto applicato. – continua, illustrando nel merito la questione drammatica attuale, l’amministratore pontino –
Nel Patto della Salute ci sono figure sanitarie come ad esempio l’infermiere di famiglia/comunità (IFeC), una figura che l’OMS ha già descritto e introdotto fin dal 2000, ma che nel nostro Paese per ora è solo ufficiale sulla carta, ma non attuata ovunque.
Nelle Regioni dove tale ruolo è a pieno regime (poche per il momento, quasi tutte benchmark, e in molte ancora in fase di sperimentazione) i cittadini hanno un punto di riferimento preciso nel loro territorio per qualsiasi necessità assistenziale.
In alcune Regioni dove la sua attivazione ha già preso piede (prima dell’introduzione nel Patto) sono rilevanti a partire da una risposta immediata e tempestiva alle esigenze della popolazione, che si rivolge al servizio di Pronto Soccorso in modo più appropriato e con conseguente riduzione dei ricoveri (in quanto si agisce prima che l’evento acuto si manifesti) e quindi riduzione del tasso di ospedalizzazione del 10% rispetto a dove è presente la normale assistenza domiciliare integrata.
L’infermiere di famiglia/comunità è garanzia anche della continuità assistenziale. Se tale figura fosse già stata istituita avremmo avuto una rete adeguata per gran parte delle funzioni assegnate alle USCAR per COVID-19 che, ad ogni buon conto, dovrebbero essere formalizzate come accade in alcune Regioni in qualità di micro-équipe medico infermieristiche.
È il concetto delle équipe territoriali, un concetto fondamentale da perseguire nella fase 2. Una forte presenza della infermieristica di famiglia e comunità che lavori accanto alla medicina generale. Dove l’infermiere di famiglia/comunità c’è, si registra anche la riduzione dei tempi di percorrenza sul totale delle ore di attività assistenziale, passata anche dal 33% al 20% in tre anni, con un importante recupero del tempo assistenziale da dedicare ad attività ad alta integrazione sociosanitaria. – sottolinea ancora la dirigente comunista.
Senza dimenticare la promozione di un rapporto di maggiore fiducia tra infermiere e cittadino, dovuta a una più rilevante prossimità e una migliore offerta assistenziale che va oltre la prestazione erogata, verso una dimensione sociale e relazionale che migliora la qualità di vita dei cittadini.
Secondo un’indagine condotta sulla qualità percepita dai pazienti e familiari fruitori del servizio, gli utenti sono più che soddisfatti del nuovo servizio: il 93% degli intervistati ritiene che la presenza dell’infermiere di comunità (quali sono le RSA ad esempio) risponda meglio ai propri bisogni assistenziali rispetto al precedente modello di assistenza domiciliare integrata.
Quindi per la Fase 2 ci vuole l’infermiere di famiglia/comunità. E per averlo serve un’integrazione degli organici infermieristici ormai all’osso: durante la pandemia i turni sono stati anche oltre le 12 ore. Quanti ne servono? La stima (senza considerare le Regioni in cui è presente un maggior numero di anziani e fragili dove le necessità aumentano) l’ha fatta la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche.
Sul territorio, per rispondere ai bisogni di salute degli oltre 24 milioni di cittadini con patologie croniche o non autosufficienza, la Federazione nazionale degli infermieri ha calcolato la necessità media di almeno un infermiere ogni 500 assistiti (assistenza continua) di questo tipo: circa 20mila infermieri di famiglia/comunità.
Un numero che è desumibile anche calcolando un infermiere di famiglia e comunità ogni 3mila cittadini circa. Inoltre, l’infermiere di famiglia/comunità può rappresentare una soluzione per quanto riguarda l’assistenza nelle “aree interne”: si tratta della cura di oltre un terzo del territorio italiano (le zone montane coprono il 35,2% e le isole l’1% della Penisola) e la collaborazione tra infermieri di famiglia e di comunità sul territorio – sociale e di cura – per il sostegno in quelle zone che oggi spesso sono spopolate perché prive proprio di supporti sociali e più in generale di servizi pubblici, rappresenterebbe anche uno strumento utile alla riduzione delle attuali disuguaglianze. – quindi con forza Sonia Pecorilli, indica cosa fare subito –
Ci dobbiamo rendere conto che 20mila nuovi infermieri introdotti nel sistema da subito non sono pochi ma utilizzando ad esempio anche i liberi professionisti e comunque forme di partecipazione che si possono decidere in seguito, l’istituzione di questa nuova figura in modo omogeneo ovunque, almeno per la metà degli organici necessari, rappresenta una vera e propria arma in più per fare fronte nella Fase 2 all’emergenza COVID-19”, figuriamoci nella paventata Fase 3.”.
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